Quando apro gli occhi al mattino lo
rivedo, ancora, e quel “mi dispiace” danza
ubriaco nei miei pensieri. Anche kundalini
si risveglia alla base della mia schiena e
sento male, ma sono pronta, comunque.
La prima volta che ho visto le
immagini di quella casa avrò avuto 8-9
anni, sulla rivista Franco Maria Ricci che
arrivava
a casa, e pensai da bambina
suggestionabile che fosse un mondo di
giochi da scoprire… poi da adolescente ho
conosciuto il personaggio, e non mi è mai
piaciuto, detesto gli ometti che giocano
alla guerra pensandosi eroi, e di più chi
abusa e male del proprio genio, pavone di una
letteratura stucchevole che di grande
aveva ben poco… questo D’Annunzio compra
una villa a Gardone Riviera e ne fa il
proprio museo, museo di se come un poema.
Ed è l’idea di una casa come un
museo di se stessi che lo avvicina
pericolosamente a me, che vivo gli oggetti
come fossero ancore di salvataggio…
Sul Garda, c’è una foschia
insopportabile, l’orizzonte lacustre è un
tutt’uno con il cielo, fondale carta da
zucchero, e quasi impercettibile il
profilo di Sirmione come un’isola
miraggio. Un cavallo blu di Paladino è un
monumento di rigidità classica, perfetto
tra le epigrafi che sono dovunque, motti
di un gusto che non capisco forse perché
io parlo poco, e con poca finta saggezza.
E lo cavalco in un sogno ad occhi aperti,
rincorrendo l’idea di riuscire a guarire
quella malattia, cuore ricolmo di un
veleno che stilla lentamente a corrodere
ogni percorso propositivo.
La guida che ci accompagna ha una
voce da film, spesso intervalla le parole
con silenzi teatrali, dai quali mi aspetto
di vedere emergere fantasmi del passato, e
questo mi proietta dentro il dramma di me
e gli oggetti. Che sono tanti, horror
vacui, paura di quel vuoto che è dentro se
stessi, inutili come i calchi di gesso
dell’antichità o del Michelangelo che lui
ama, ma preziosissimi come le statue
lignee di santi e madonne del trecento, le
ceramiche bianche e blu, gli argenti da
tavola e toeletta, le divinità orientali
come piramidi di irraggiungibile bellezza.
Più di trentamila libri in tutta
casa, e lampadari preziosissimi e
bizzarri, un organo in salotto, pelli di
felini, cineserie… ma la luce, quella
naturale che lui detesta dopo la ferita
all’occhio, che viene schermata, filtrata
da vetrate liberty dai colori sgargianti,
o soffusa nel caldo dell’arancio… e allora
lo spazio, nel silenzio ovattato di
tappeti e tappezzerie e di legni oscuri, è
una caverna accogliente, quella assenza di
luce che per molti rende le stanze
opprimenti, ma che protegge me nella
gabbia dorata che ho costruito… e mentre
fuggo dalla realtà lo sento bisbigliare
leggero al mio orecchio “non posso più
vivere senza di te”, ma la barriera che ha
alzato tra di noi riverbera di inganno.
E le cose disparate, maniacalmente
raccolte ed esposte in pose eterne che io
bramo…io che per disfatta ho più
familiarità con le cose che con le
persone… lui non lo comprendo come uomo ma
come pensiero che si isola si… un fuori
che non comunica con il dentro, un dentro
che è rifugio e nascita di pensieri.
Un casa labirinto, angusta e
specchio di una decadenza tipica
dell’epoca, ma come ventre materno
accarezza le mie ferite, e in una vasca di
ceramica blu lapislazzulo come le cupole
brillanti di Samarcanda, mi inviterei in
un bagno caldo ad immaginarmi tra i vapori
un vivibile mondo rarefatto fuori dalla
finestra.
Come in una canzone di Paolo Conte,
che mi risuona nella testa mentre quel
sole moribondo nella foschia che sale dal
lago mi accompagna su un viale senza
ombre, e amaro come la verità che non
tutti i film che scorrono nei nostri
pensieri abbiano diritto ad un lieto fine.
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